Il cranio di Cesare nella ricostruzione olandese: disanima semiseria - pubblicato da Sonia Morganti il 01/07/2018
Giardini e strade, Sallustio e Cesare - pubblicato il 7/07/2013 - autore Andrea Cassone
Papiri da Ercolano - estratto dell'intervista dal n. 6 di Archeo agosto 1985 - con immenso ringraziamento a Rodolfo Meaglia che mi ha permesso di leggere interamente questo pezzo unico.
L'anello di Cesare - pubblicato il 23/11/2013 - autore Andrea Cassone
Seminario su Ottaviano Augusto - pubblicato il 02/03/2014 - un resoconto
Il valore della dignitas e le guerre civili - tratto da G. Zecchini, Il significato dell’esperienza umana e politica di Cesare, in Giulio Cesare, l’uomo, le imprese, il mito, Silvana Editore in occasione della Mostra al Chiostro del Bramante - pubblicato il 07/04/2014
Via dei Fori Imperiali: come ti vorrei - autrice Sonia Morganti - pubblicato il 13/07/2014
Buon non compleanno, Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto - pubblicato il 15/10/2014 - autore Sonia Morganti
Il matrimonio perfetto tra antico e moderno: quando il virtuale riporta in vita antiche realtà - pubblicato il 01/12/2014 - autore Sonia Morganti
Prima conferenza del ciclo: "Luce sull'archeologia" - Le idi di marzo a largo Argentina. - Un resoconto dettagliato per chi non ha potuto esserci e... che vi invogli ad essere presenti alle prossime conferenze - pubblicato il 12/01/2015 - autore Sonia Morganti
Le Idi di Marzo e la vera storia di Cesare e di Bruto il banchiere usuraio - pubblicato su questo sito il 15/03/2015 - autore Domenico de Simone - originariamente pubblicato sul suo blog, che vi invito a visitare
E luce fu - L'illuminazione scenografica dei Fori Imperiali: evento e lascito - pubblicato il 22/04/2015 - autore Sonia Morganti
Conferenza di Romolo Augusto Staccioli sulla nascita di Roma, presso la fondazione Barco Besso, il 21/04/2017 - trascrizone di Sonia Morganti
Giardini e strade: Sallustio e Cesare
Possiamo immaginare che Sallustio conoscesse bene Cesare. Era dalla sua parte al tempo della guerra civile e Cesare lo aiutò in più di un’occasione, anche nella carriera politica successiva, che si interruppe comunque nonostante l’aiuto dell’amico, per insuccesso.
Poi Cesare fu tradito e ucciso, assassinato vigliaccamente, come sappiamo. Le ferite inferte a Cesare furono ferite inferte a Roma; per anni la città non fu più la stessa e corse molto sangue prima che Augusto, impassibile, dall’alto del Palatino, potesse tornare a abbracciarla con lo sguardo, pacificata, ordinata e rinnovata, sotto il segno di suo padre, di Apollo e di Venere.
Un orecchio disposto e attento può sentire il lamento della città. E’ un lamento che si rinnova nei secoli, nei momenti bui e potremmo con Dante ripetere:
Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?»
Benestante, Sallustio abitò una bella dimora fra il Pincio e il Quirinale, circondata da giardini (gli Horti sallustiani) che si estendevano al Viminale e che scendevano fino al campo Marzio. Sono i più famosi giardini dell’età repubblicana, ricordati per le viste sulla città e per la piacevolezza; entrarono nei possedimenti imperiali, vi passeggiò Augusto.
Come si fosse procurato Sallustio le risorse per realizzare una simile meraviglia non si sa; si sono avanzate le più varie illazioni, per lo più spiacevoli, come sempre.
Si dice che nei luoghi della sua dimora ve ne fosse stata una di Cesare, nei pressi di Porta Collina. Entro il perimetro degli Horti vi era, fra altre costruzioni, anche un tempio, dedicato a Venere Ericyna. Nel secolo scorso qui venne ritrovato un bassorilievo a più facce - il Trono Ludovisi - di straordinaria bellezza; una delle sue facce rappresenta probabilmente la nascita di Venere, dea progenitrice della Gens Julia.
Naturalmente c’è stato chi ha supposto che il Trono fosse un falso, sono stati proposti nomi di possibili falsari. E’ un’indagine che a noi interessa poco, è infatti un destino che ogni cosa a Roma sia in una certa misura ambigua. A Roma è come se Giano abbia riverberato la caleidoscopica ricchezza dei suoi volti su tutto, sicché ogni essere – è un segreto della grande sapienza romana – si offre qui all’occhio che lo osservi, sub specie aeternitatis, nella sua intima natura, in cui convivono passato e futuro, bene e male, vero e falso, generosità e crudeltà. Dipende da noi, dalla fermezza del nostro sguardo, scegliere “come” vedere; ogni possibilità è offerta. Il segreto è sapere che è il “come” che “farà” ciò che vediamo. E’ il segreto della forma, è, forse, la ragione per cui Virgilio chiuse gli occhi a Dante perché non venisse “smaltato” quando Medusa si presentò alle porte della città di Dite.
Torniamo a Sallustio. Sappiamo che egli acquistò anche un’altra proprietà che era stata di Cesare, vicino a Tivoli. E’ sorprendente constatare come acquistando terreni e dimore Sallustio volesse quasi ricalcare le orme di Cesare, immedesimarsi in lui o forse solo conservarne e tramandarne la memoria, attraverso i beni, custodire i luoghi di culto, i segreti.
Cesare inizialmente abitò nella Suburra, un quartiere abbastanza malfamato di Roma, fra l’Esquilino e il Viminale, verso il Foro, cioè verso il centro della città. Si trasferì, quando venne eletto Pontefice, nella via Sacra. Erano anni di debiti, di povertà e tuttavia Cesare amava circondarsi di bellezza. Sappiamo dell’eleganza, che ricercava e che lo distinse sempre; dire che fu amante del lusso è inesatto. Cesare, che si circondava di beni costosi nonostante l’indigenza, avrebbe potuto dire quel che D’annunzio disse di sé due millenni dopo “ho quel che ho donato”. Il lusso di Cesare era saper rinunciare agli agi. All’occorrenza – un compagno stava male - lui capo famoso e onorato, s’adattò a dormire per terra, sul pavimento.
Quand’era ancora indebitato ebbe una villa ad Ariccia, che fece demolire poiché non gli piaceva. Fu Cesare incontentabile nella ricerca del meglio? Forse sì e, se è vero che il meglio è nemico del bene, fu un suo difetto, ma quanto umano difetto e forse anche desiderabile a confronto dei compromessi che segnano il nostro tempo.
Ebbe poi una tenuta a Tivoli, la tenuta che Sallustio appunto acquistò successivamente e una a Lavico, in cui, le Idi di Settembre del 45 a.C., scrisse il testamento, custodito dalla Vestale Massima e aperto, dopo la morte, in casa di Antonio. Sappiamo infine che negli stessi anni Cesare possedette a Roma un’ampia proprietà con giardino – gli Horti Caesaris - sulla riva destra del Tevere. Dalle lettere di Cicerone si evince la loro bellezza, seconda solo a quelli di Clodia, la sorella del tribuno, che vi teneva quel che oggi diremmo un salotto all’aperto, il più ricercato della capitale del mondo.
Probabilmente la proprietà di Cesare era ampia, estesa da Nord a Sud; occupava gran parte dei terreni fra Monteverde e Porta Portuense, c’è chi sostiene che vi fosse inclusa la Farnesina. Qui Cesare ospitò Cleopatra, forse qui trascorse molto più tempo che nelle altre sue dimore che – assente per le campagne militari e la guerra civile – abitò per brevi periodi. Pieno di vita e insaziabile com’era, anche nei suoi Horti sarà stato costantemente attivo, presente nell’ora, nell’oggi, teso a formare il mondo.
E’ difficile immaginare un Cesare malinconico struggersi per il passato, anche l’anno prima delle fatidiche Idi di Marzo, quando ci dicono fosse stanco e forse sofferente per qualche disturbo fisico, per qualche malanno. Tempo addietro, a poco più di trent’anni, in Spagna aveva provato rabbia fino a piangere, vergognandosi per il suo passato, al pensiero che Alessandro alla sua età aveva già conquistato un impero.
Il pensiero del tramonto, della morte lo turbava? Nei suoi Horti, allo sfarsi del giorno avrà pensato al declino, alla fine cui ogni essere vivente è destinato? Poche ore prima di morire a casa di Marco Lepido confidò agli amici la sua preferenza per una fine rapida e inaspettata. Cesare era destinato a essere per sempre un astro fulgente, un astro senza tramonto. Morì a cinquantasei anni, al culmine dell’età matura secondo la dottrina etrusca; dopo l’apoteosi comparve una stella cometa nel cielo notturno di Roma e vi ristette per sette giorni, una stella da allora venne aggiunta al capo delle statue e delle effigi che lo ricordavano.
Ci farebbe piacere sapere che le ore insieme a Cleopatra furono ore di pienezza e lo abbiano, per il fascino della regina, distratto dall’esercizio della vis amorosa che investiva donne e uomini, con la sicurezza, la forza e l’eleganza di una inimitabile virilità.
Sallustio la malinconia l’avrà probabilmente provata nei suoi Horti, sui passi di Cesare, e avrà lungamente ripensato agli anni trascorsi, parlandone anche con Terenzia, già consorte di Cicerone.
Cesare assunto in cielo, Sallustio si dedicò infatti alla storia e scrisse tre libri, per vari motivi tutti da ricordare. Qui però parleremo solo di uno di essi - la Congiura di Catilina - perché è raccontando di Catilina, che Sallustio ci dice molto anche di Cesare e ci dà un quadro invero complesso e affascinante di quei tempi, così lontani e così vicini. Peraltro lo fa con tanta intelligenza da apparire ambiguo – l’ammirazione per i “cattivi” è evidente, nelle battute finali della storia - ma abbiamo già visto che l’ambiguità a Roma è segno di ricchezza. Ci dispiace per chi condanna l’ambiguità sallustiana che è invece l’espressione di uno spirito capace di cogliere l’universale in ogni essere umano in modo quasi commovente, chi lo fa perde molto del senso profondo della vicenda di cui diamo ovviamente per scontata la conoscenza.
Si può essere davvero essere insensibili ai cattivi della storia, a Sempronia, allo stesso Catilina, così veri pur nell’errare? E’ impossibile: ecco allora che possiamo immaginarci Sallustio dirsi scrivendo “sì, va bene, sbagliarono, ma lasciate che vi mostri anche quanta grandezza c’è nel loro errore, come un romano regge la parte, anche quando sbaglia e infine come sanno morire, i romani.”.
Altro grande segreto di Roma: la vita è teatro, ma la parte va incarnata, sostenuta sempre, senza mai cedere neanche per un secondo. Augusto morendo domandò agli amici “Vi sembra che abbia recitato bene la commedia della vita?” E, senza dar loro il tempo di rispondere concluse come gli attori dicendo “Poiché abbiamo ben recitato, dateci un applauso e tutti insieme accompagnateci con gioia”.
Il molto che Sallustio ci dice di Cesare è contenuto in pochi passi della Congiura e nel resoconto del celebre discorso tenuto al Senato.
Si tentò innanzitutto di accusare Cesare di far parte della congiura. Cesare aveva allora trentotto anni, era un uomo aperto e intelligente, un outsider, un progressista avrà sicuramente saputo di quel che si andava preparando molto più di quanto ne sapesse l’impermeabile establishment d’allora. Sallustio ci fa intendere che sarebbe stato possibile eliminarlo a causa del forte indebitamento. Debiti contratti per la straordinaria liberalità della vita privata e per la munificenza della vita pubblica. Liberalità e munificenza: ecco i veri motivi per eliminare Cesare. Si giunse a minacciarlo con le spade, per intimorirlo, all’uscita del Senato. Cesare faceva paura, era volitivo e fuori dagli schemi, libero nonostante i debiti, la consorteria al potere lo temeva fin d’allora, memore dell’avvertimento di Silla.
Cicerone si rifiutò di avallare la calunnia e dobbiamo al fondo di onestà che riposava nell’ottimo console, alla segreta ammirazione che provava per l’uomo, all’ambiguità infine l’aver evitato al cursus di Cesare un passaggio così difficile e pericoloso, un accusa infamante.
La Congiura ci offre poi il resoconto del discorso di Cesare al Senato. E’ un discorso giustamente famoso, di tale livello da rendere qui inappropriato ogni commento alla sua sostanza.
Leggendolo con attenzione e pensando a Sallustio si intuisce che scrivendolo egli avesse in mente il distacco, la superiorità di Cesare, ben vivi e netti, ma anche l’umanità di Cesare.
In rapida rassegna ecco allora il dominio dei moti dell’animo, la conservazione della dignità, l’equità, la lungimiranza, la responsabilità che fonda la sovrana libertà di agire di fronte al male, l’importanza della memoria: insieme alla profonda, finissima conoscenza dell’animo umano e all’esperienza diretta di disgrazie, sciagure e orrori (anche la guerra che Cesare ben conosceva), insieme alla superiore coscienza di sé essi formano un’attitudine intelligente, equilibrata, sovrana al pensiero e all’azione, ma soprattutto, un’attitudine mai fredda.
Che dire poi della straordinaria rievocazione degli avi, contenuta nella parte finale del discorso. C’è Roma qui, nella sua essenza e Sallustio lo sa quando scrive dell’apertura mentale e della capacità d’integrazione come del cuore stesso della civiltà romana, il suo lascito al mondo, la luce delle genti. “…si trovarono uniti entro le stesse mura, benché di diversa stirpe e lingua e costume, si fusero con una facilità che a dirlo non si crederebbe: e così in breve da una moltitudine disparata ed errante l’unità dei cuori fece sorgere una nazione.”.
Roma crebbe assimilando, nutrendosi del meglio, saggiamente.
Una grande storica dell’antichità ha scritto: “…assimilazione, che si traduce in capacità di imitare migliorandoli gli usi stranieri e di integrare nel proprio corpo civico stranieri e persino schiavi (Numa Pompilo rex alienigena e Servio Tullio ex serva tarquiniensis natus) … frutto dell’incontro di uomini appartenenti non solo a popoli diversi, ma anche ad epoche diverse: la nostra res publica – dice Cicerone – non è frutto dell’ingegno di uno solo, ma di molti, e non si è formata con la vita di un solo uomo, ma in una lunga serie di secoli”. Nulla che abbia valore universale, infatti può essere costruito in una sola epoca e da una sola persona sine rerum usu ac vetustate.”. E ancora “La naturale disposizione riconosciuta da Polibio ai Romani, di accogliere e imitare gli usi stranieri, purchè buoni, diventa qui tradizione dei padri…”
Sono pagine e commenti che parlano sempre di Cesare, perché i valori di cui raccontano sono incarnati per sempre in Cesare. L’ intero nostro mondo si è nutrito di Cesare e se vogliamo evitare che degeneri è meglio che ci si rivolga nuovamente a lui, che ci si ricordi di lui. Sallustio scrisse perché la sua storia, divenendo viva memoria, passasse i secoli.
Dopo la morte di Cesare Svetonio ricorda che“…in quell’immenso lutto pubblico una moltitudine di stranieri fece lamentazioni intorno al rogo, ciascuno secondo il loro costume, e in particolare i Giudei, che tornarono sul posto per molte notti di seguito.”
Sallustio infine confronta Cesare e Catone, le gemme della sua Roma, ce li presenta diversi e unici. Qui ci dice davvero moltissimo, più di quanto osassimo sperare.
Sallustio è cesariano, i tempi erano di poco posteriori alla morte di Cesare, il saper vivere, dopo quel che era successo richiedeva una certa prudenza, equidistanza; Catone ne esce “alto” e con Catone si chiude il confronto.
Ma come rimanere insensibili all’emozione profonda di quel
dando, sublevando, ignoscendo
con cui Cesare ottenne la gloria?
Sallustio scrisse “ignoscendo” e nel verbo, a ben vedere è racchiuso il battito di un cuore sovrano, l’immensità di Cesare.
Papiri da Ercolano - intervista a Marcello Gigante, pubblicata su Archeo il 06/08/2013
grazie mille a Rodolfo Meaglia
Una piccola premessa è d'obbligo.
Da anni, ormai, cerco di documentarmi sulla Villa dei Papiri, tesoro nascosto e forse anche incompreso, perché se l'importanza di questo ritrovamento fosse pienamente recepita, non si accetterebbe la sua mancata tutela e valorizzazione.
Sono convinta che quel luogo sia importante per la Storia di Roma e anche per quella di Cesare, che almeno un paio di volte ci sarà passato.
Quando ho saputo che lo zio del mio compagno è appassionato di archeologia, ho subito dato vita a uno scambio di mail e lui ha avuto la dolcezza e la generosità di farmi davvero felice, scansionandomi questo articolo preziosissimo e non più reperibile nemmeno nell'archivio online di Archeo. Lo ringrazio davvero.
Dell'articolo, io ho riportato solo alcuni estratti dell'intervista, per rispetto della normativa italiana e ho citato chiaramente la fonte. Mi fa sorridere specificare che questo sito non ha scopo di lucro, visto che (purtroppo) il mio lavoro è tutt'altro... Nessun copyright si intende infranto ed eventuali rettifiche verranno prontamente apportate.
ARCHEO N. 6, agosto 1985,
PAPIRI DA ERCOLANO
Professor Marcello Gigante, prossimamente dovrebbero riprendere gli scavi della villa dei Papiri a Ercolano. Perché nel Settecento vennero sospesi?
La villa fu ricoperta perché ci furono-delle esalazioni, le cosiddette mofete, che rendevano l'aria irrespirabile, pur non essendo estremamente nocive. Ma fu soprattutto una ragione psicologica a far si che venissero richiusi i pozzi e i cunicoli: gli scavi avevano già dato risultati eccezionali […]
A chi apparteneva la villa?
Era la residenza di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, personaggio politico molto in vista […]. L'anello di congiunzione fra la villa e questo personaggio centrale della «classe dirigente» del tempo è costituito da Filodemo di Gadara: infatti la maggior parte delle opere trovate nella biblioteca sono di questo filosofo epicureo, che sappiamo essere stato amico e protetto di Pisone.
Dove si trovano i bronzi recuperati nello scavo?
Al Museo archeologico di Napoli. […] Tra le sculture, la più bella è quella denominata Pseudoseneca, che è stata via via identificata con moltissimi personaggi dell'antichità. La famosa archeologa americana Richter, per esempio, vi ha riconosciuto Esiodo, mentre oggi l'opinione prevalente è che si tratti di Ennio, il poeta romano. A me piace molto questa ipotesi, perché in un certo senso conferma la mia convinzione che nella sezione latina della biblioteca di Pisone ci dovessero essere le opere di Ennio, il padre della poesia latina, da cui Virgilio attinse di più.
Dunque non tutto della villa è stato portato alla luce...
No. Intanto, la maggior parte della decorazione scultorea, che doveva essere molto ricca, è rimasta sepolta. Inoltre noi del Centro internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi sosteniamo, non arbitrariamente, che soprattutto la parte latina della biblioteca è sotto terra. Ciò che è stato recuperato nel Settecento è principalmente costituito da opere greche, e non tutte. […] doveva essere perciò divisa in due settori distinti: uno in lingua greca, l'altro in lingua latina […] noi ci aspettiamo dai nuovi scavi anche il recupero dei classici latini: per esempio, non poteva mancare il De rerum natura, il poema di Lucrezio, per l'appunto un poeta epicureo.
Come si presentano i papiri e a quali trattamenti sono sottoposti?
I papiri rinvenuti (1826 pezzi) sono carbonizzati, in seguito a un processo naturale di mineralizzazione. Essendo carbonizzati a diverso livello, una parte di essi, quella ancora in buone condizioni, si è potuta svolgere, un'altra è irrimediabilmente distrutta. […]
Ci sono dunque dei papiri ancora da svolgere?
Attualmente no. La nuova tecnica viene sperimentata su alcuni pezzi in attesa che si possa riprendere - e questo, come vedremo, è il punctum dolens - lo scavo della villa dei Pisoni.
Quale importanza riveste la papirologia, lo studio dei papiri ercolanesi, e perché tanto interesse per quelli che si pensa siano ancora sepolti?
[…] si rendono accessibili allo storico della filosofia, che è il più interessato, ma anche alla persona di cultura media, testi fino a una certa epoca o non interpretati in maniera sufficiente o addirittura male interpretati. […] Pensiamo che la villa dei Pisoni era praticamente un museo, un centro di cultura, una casa delle Muse […] Ma ciò che interessa di più è il contenuto dei papiri ancora da scoprire. Del resto, occorre tener presente che la storia della cultura dell'antichità è fatta sui documenti.
Per fare un esempio: la critica virgiliana è stagnante, perché interpretiamo sempre gli stessi testi. Dobbiamo considerare che gran parte della letteratura antica è andata perduta: di Eschilo, Sofocle, Euripide abbiamo un certo numero di tragedie, ma non è tutto quello che hanno scritto. […] [continua]
L'anello di Cesare di Andrea Cassone
La figura di Venere armata era incisa su un anello che Giulio Cesare portava abi-tualmente. E’ un anello di cui si ha notizia anche dopo la morte di Cesare; notizia che si può trovare nei racconti della vita di Ottaviano Augusto. Poi più nulla; la storia successiva dell’anello la possiamo solo immaginare.
Cesare era devoto a Venere. Sentiva di aver ricevuto da lei l’eterna giovinezza dello spirito. Pronunciava il suo nome nei più grandi pericoli, come parola d’ordine e garanzia di protezione.
Le rappresentazioni di Venere armata che ci sono pervenute dal periodo classico della storia romana sono poche. Il titolo di Venere armata, sconosciuto ai romani, viene attribuito posteriormente a due diverse serie di immagini. Nella prima Venere porta su di sé le armi e l’armatura; nella seconda ella, con accanto Vittoria o Amore, custodisce solamente le armi deposte ai suoi piedi. Nella seconda Venere è impropriamente definita armata, poiché il fatto che le armi siano deposte po- trebbe anche essere il risultato di un’azione pacifica, di seduzione, per esempio su Marte, come nei versi d’apertura del De Rerum Natura, dove la dea – madre degli Eneadi – sola può gratificare i mortali con una tranquilla pace e i Romani, fra loro, con una speciale “placidam ... pacem”.
E’ Marte quindi che, pur assente dalla scena, avrebbe deposto le armi, per azione di una Venere sì Vincitrice, ma disar- mata ovvero armata delle particolari armi della seduzione (Venus Felix).
La Venere dell’anello di Cesare era invece, come si vedrà, veramente armata. Venere armata in senso proprio esprime un aspetto importante di Venere Vincitrice o Vittoriosa (Venus Victrix). Le raffigurazioni di Venere come dea nicefora, portatrice di vittoria e artefice della vittoria (perciò armata) compaiono e si diffondono contemporaneamente all’ascesa di Cesare alle più alte cariche e respon- sabilità della vita pubblica romana.
Le numerose rappresentazioni di Venere armata e Vincitrice sulle monete mostrano una donna in parte nuda, che porta armi leggere. Ella è di solito munita di scudo e di lancia, la punta rivolta verso il basso. Talvolta si trovano anche rappresentazioni in cui compaiono elmo, scettro, globo, mela (di Paride) e palma. Venere Vincitrice è talvolta alata o accompagnata da una creatura più piccola, la Vittoria Alata. Venere, più raramente, è coronata di alloro e appoggiata a una colonna. Potrebbe essere interessante cercare di capire se l’Afrodite armata che era antica- mente venerata a Sparta possa essere stata un modello delle raffigurazioni di Venere armata a Roma. Sono state avanzate anche ipotesi suggestive circa una pos- sibile relazione tra la raffigurazione “matura” di Venere armata e la statua di Athena Parthenos, di Fidia.
La glittica e la statuaria, in alcuni esempi di epoche posteriori, provano il perdurare, nella Roma imperiale, delle rappresentazioni di Venere Vittoriosa e armata. Esse riaffiorano poi in altri periodi ancora che intrattennero con la classicità un rapporto privilegiato, per eredità, o per elezione (Neoclassico).
Come era dunque la Venere armata incisa sull’anello di Cesare?
Nel discorso d’elogio per Giulia - la zia, moglie di Caio Mario - pronunciato dai Rostri, Giulio Cesare, allora trentenne, rivendicò la discendenza della Gens Julia (i Giulii) da Venere. Distinse allora - con una nettezza che Dante nel De Monarchia avrebbe poi ripreso e sviluppato - il potere temporale dallo spirituale, stabilen- done la gerarchia e affermandone implicitamente, nella propria persona, la sintesi. Disse infatti. “Dunque nella nostra stirpe vi sono sia il carattere sacro dei re, muniti del supremo potere fra gli uomini, sia la santità degli dei, che hanno potere sugli stessi re”. Sull’anello era dunque rappresentata la progenitrice celeste dei Giulii, la dea santa che ha potere sui re. Invocarla significava appellarsi a un potere superiore al po- tere esclusivamente umano dei signori del mondo.
Un potere “sacro-santo”, quello di Venere, condiviso da Cesare; un potere che nel caso degli Eneadi è il potere dell’”Amor” che tutto vince, sia sul piano celeste, che su quello terrestre (L’”Amor che move il sole ...” e la forza del desiderio; la Venere celeste e la Venere terrestre).
Poco più che quarantacinquenne Giulio Cesare avviò la costruzione del Foro Giulio (o Foro di Cesare, dal 54 a.C al 46 a.C.), che comprende il tempio dedicato a Venere Genitrice. E’ il primo dei Fori Imperiali.
All’interno del tempio di Venere, Cesare fece esporre un quadro di Timòmaco, pittore di Bisanzio; lo aveva acquistato insieme ad un altro dipinto, per ottanta talenti (una somma notevole). Il quadro fu l’ultima, incompiuta, opera di Timò- maco. Cesare lo volle collocare proprio nel tempio di Venere Genitrice perché le- gato al tema dell’ascendenza divina della Gens Julia. Il quadro rappresentava Medea che medita la vendetta mediante l'uccisione dei figli. Si suppone che Me- dea fosse qui vista innanzitutto come un simbolo della forza travolgente dell’amore; una forza da esorcizzare, neutralizzare, rendendola sacra. Il soggetto del quadro era abbastanza comune: due affreschi, uno proveniente da Pompei e uno da Ercolano, conservati al Museo Archeologico di Napoli ne testimoniano la popolarità e la diffusione, soprattutto in area campana. Il legame fra Venere e Me- dea è antico, attestato anche nella Medea di Euripide (Cesare conosceva eviden- temente bene Euripide di cui si dice ripetesse frequentemente i versi delle Fenicie che dicono: “... Se ... si deve violare il diritto per regnare,/lo si violi: negli altri casi si ri- spetti la giustizia”).
La ragione per cui troviamo una raffigurazione di Medea, in un tempio di Venere, legato alla celebrazione della Gens Julia è difficile da comprendere e spiegare. Medea è infatti una figura mitica – prima che letteraria – un simbolo di aspetti dell’anima che potevano essere sì colti leggendo, approfondendo e meditando il mito, ma soprattutto imparando a riconoscerne la verità, i molti sensi concordanti, direttamente nell’esperienza della vita.
L’intreccio ramificato di relazioni in cui Medea si colloca poteva essere facilmente “abbracciato” nella sua interezza da un romano istruito del periodo classico; oggi una sia pur minima comprensione di un intreccio così complesso richiederebbe una illustrazione preliminare, “a tavolino”, di tutte le sue parti, compresi gli svi-
luppi cui esse diedero vita, attraverso una serie indefinita di spiegazioni e chiarimenti, faticosa e incerta quanto alla possibilità di un’effettiva comprensione del mito. Quando un simbolo diventa incomprensibile vuol dire che sta svanendo e restituirgli la sostanza è possibile solo a pochi, in possesso delle qualità per farlo. Le relazioni di Medea sono amplissime, si estendono geograficamente fin quasi alle porte di Roma, alla dimora di Circe, cui ella era affine e di cui era parente.
L’esposizione del quadro di Medea nel tempio di Venere è uno dei modi in cui si espresse il culto di Cesare per Venere. Ci aiuta a comprendere la vastità e la ric- chezza della “venerazione” che Cesare le tributò sempre intimamente, il legame esibito orgogliosamente che li univa, il culto esteriore che – more romano - le pre- stò scrupolosamente; ma ci aiuta soprattutto a comprendere la natura profonda di un rapporto personale, privilegiato con lei, con l’Amor, in ogni sua forma, rapporto da cui scaturivano sicurezza, forza e un grande potere di seduzione.
E’ perché è armata che Venere è garanzia di stabilità, è Vittoriosa; incanala il potere immenso e potenzialmente distruttivo dell’amore, lo indirizza, lo ordina, lo governa, diventa infine Genitrice. Il ciclo di Medea ricorda che ogni ordine è precario in assenza di vigilanza continua, che una forza positiva può diventare da un momento all’altro distruttiva e altro ancora. Medea è una maga delle trasformazioni, come Circe, conosce le metamorfosi, l’ambiguità dell’amore, forza potentis- sima fra quelle che determinano la vita e i destini degli uomini.
Per evocare, senza correre rischi, il potere di Venere occorre essere sicuri di conoscerlo, padroneggiarlo e saperlo usare.
E’ interessante notare che nel tempio vi era anche una statua di Cleopatra, in bronzo dorato, una statua di Cesare stesso, l’altra opera di Timòmaco acquistata da Cesare (raffigurante Aiace), gemme e cimeli.
Nella cella vi era soprattutto la statua della dea, la Venere Genitrice (armata e Vittoriosa).
Fu nell’Agosto del 48 a.C., a metà della notte precedente il giorno della battaglia di Farsalo, che Giulio Cesare, nel corso di un sacrificio a Venere e Marte promise alla dea la costruzione di un tempio, da costruirsi a Roma, nell’erigendo nuovo Foro in ringraziamento della vittoria su Pompeo.
La relazione tra la Venere, Vincitrice e Vittoriosa, e la Venere Genitrice del tempio appare, grazie al racconto del sacrificio, chiara e diretta.
E’ solo la vittoria che può determinare le condizioni per la nascita di un nuovo ordine che porti pace e prosperità (fertilità). Cesare vinse a Farsalo, costruì il tempio che venne “dedicato” nel 46 a.C., ancora incompleto. Lo terminò poi Ottaviano Augusto.
Si può essere quindi praticamente certi che la Venere Genitrice onorata nella cella del tempio a lei dedicato nel Foro Giulio, fosse una manifestazione della Venus Victrix. Si può anche considerare Venere armata niente più che un aspetto particolarmente importante per Cesare di Venus Victrix. Si deve qui ricordare che l’attributo di “Victrix” nel culto di Venere si afferma a Roma solo con Cesare.
Attraverso la ricostruzione del simulacro della dea, avremo finalmente una rappresentazione abbastanza fedele dell’immagine sull’anello di Cesare.
Arcesilao, uno scultore greco allora attivo a Roma, ricevette nel 48 a.C. l’incarico di scolpire la statua di Venere Genitrice per la cella del tempio. Rappresentante del neoatticismo, nativo di Cirene, egli fu amico di Lucio Licinio Lucullo e lavorò a lungo a Roma per Giulio Cesare, per Marco Lucullo (figlio di Lucio, che gli commissionò una statua della Felicità, incompiuta, per 6 milioni di sesterzii), per Asinio Pollione, per Marco Terenzio Varrone. Arcesilao era solito preparare dei modelli in terracotta, modelli molto ben fatti e apprezzati, vere e proprie sculture, per illustrare e discutere l’effetto finale dell’opera. Poiché la statua di Arcesilao non fu mai, come il tempio, completata, possiamo presumere che egli abbia lavorato su un’immagine di Venere – un modello iconografico si direbbe oggi – di recente formazione, senza precedenti e ancora indefinita.
Un recente studio, piuttosto accurato, sulla base delle monete (denari) di Cesare emesse fra il 44 e il 47 a.C. ci permette di delineare i caratteri e gli elementi princi- pali della Venere Genitrice del tempio, su cui lavorò Arcesilao.
Essi sono anche i caratteri e gli elementi della Venere armata dell’anello.
Venere Genitrice (Venere armata e Vincitrice) era raffigurata in piedi, il petto era interamente scoperto, la veste copriva il resto del corpo, sull’avambraccio destro, piegato ad angolo retto poggiava una Vittoria alata, il braccio sinistro alzato reggeva un asta (o una lancia) su cui, più in basso s’appoggiava uno scudo, posato su un globo. Al piede dell’asta compariva un oggetto stellato, forse un astro stilizzato (l’astro di Venere). La presenza della rappresentazione stilizzata di un astro, la “buona stella” di Cesare è rimarchevole e potrebbe dar luogo ad interessanti approfondimenti sull’aspetto “celeste” della Venere di Cesare e sull’origine del culto successivo di Cesare stesso.
Il risultato del lavoro di Arcesilao fu una rappresentazione di Venere originale, che impressionava per forza e misura. Una donna decisa, risoluta e calma al tempo stesso, con una sfumatura di androginia nella fusione di caratteri femminili e elementi maschili, ritenuti di solito antitetici.
E’ un aspetto che forse piacque particolarmente a Cesare, sia a ragione delle sue ampie vedute in campo amoroso, sia perché probabilmente apprezzava nelle donne il tratto regale, dominante. Amò infatti due regine di carattere, Eunoe di Mauritania e Cleopatra, per cui dovette provare una vera passione.
La figura della Venere dell’anello di Cesare si discosterà pochissimo dalla figura, ricavata e ricostruita dall’analisi delle monete coniate in epoca cesarea: perché la Venere del tempio del Foro Giulio avrebbe dovuto essere diversa dalla Venere che aveva assistito, effigiata sull’anello, il suo amato discendente?
Che cosa si sa ancora dell’anello di Venere armata?
Di un anello di Cesare - probabilmente ne portava più d’uno – si parla nel racconto di un episodio della sua vita, svoltosi probabilmente a Rimini, nel luogo in cui oggi sorge un cippo, in piazza Tre Martiri, nei primi giorni di Gennaio del 49 a.C. (forse il 12 Gennaio).
Sappiamo che Cesare portava sempre l’anello con il sigillo di Venere. La figura era stata incisa su gemma o pasta vitrea, poi era stata incastonata. Dell’anello di Venere ignoriamo la forma che, in casi simili, poteva essere varia. Le più frequenti erano le forme circolare e ovale. Ignoriamo anche la dimensione dell’incisione; di solito era tanto più pregevole quanto minuta.
Probabilmente Cesare portava d’abitudine anche l’anello senatorio, in genere un semplice cerchio d’oro talvolta con pietra incastonata. Avrà infine portato, in periodi diversi della vita, l’anello di ferro dei generali trionfatori e altri anelli ancora, di fidanzamento (pronubus) o di matrimonio (cingulum o vinculum).
Gli anelli si portavano di solito sulla mano sinistra, ma era uso comune portarli anche sulla destra, sull’anulare preferenzialmente e poi sulle altre dita. Cesare era un militare, cui piaceva combattere; si deve perciò supporre un numero e una posizione degli anelli che ostacolasse o infastidisse il meno possibile le prese e i movimenti di entrambe le mani.
Cesare era dunque a Rimini e stava parlando appassionatamente ai tribuni della plebe (Marco Antonio e Quinto Cassio Longino) e alle truppe, riuniti in assemblea.
Era un momento decisivo, il Rubicone era stato appena passato, cominciava l’avventura di una guerra fratricida, a cui occorreva incitare gli uomini motivandoli. Cesare e i suoi erano stati “chiamati” a intraprenderla, la guerra, “dai prodigi degli dei e dall’ingiustizia dei nemici”.
“Mentre parlava ed esortava, mostrò più volte l’anulare della mano sinistra, dichiarando che per soddisfare coloro che stavano per difendere la sua dignità, di buon animo si sarebbe privato persino dell’anello.”
A Roma anche i cavalieri, oltre ai senatori, portavano un anello d’oro, segno del loro rango. Sembra che, di preferenza, lo portassero all’anulare della mano sinistra. Si dice perciò che i legionari delle ultime file, vedendo la mano sinistra alzata, in riferimento all’anello, abbiano interpretato il gesto come una promessa di rango equestre per tutti.
E’ possibile che i legionari abbiano scherzato, che si sia trattato di una battuta sulla ben nota generosità del loro comandante, per stemperare la tensione del momento. E’ alquanto improbabile che abbiano potuto interpretare il gesto come una promessa e prenderla sul serio.
Se la cronaca dell’episodio - quanto all’intenzione, da parte di Cesare, di premiare la difesa della propria “dignitas”, qualità fondamentale per un romano - è com- prensibile e credibile, lo è decisamente meno la ragione per cui ciò dovesse comportare la privazione dell’anello. Per chiarire meglio l’episodio dovremmo avere la certezza che la tradizione, scritta o orale, in base alla quale l’episodio è stato tramandato, sia stata fedele all’accaduto, ai gesti e alle parole realmente pronunciate. E dovremmo avere la certezza che l’anello fosse un anello senatoriale.
Altrimenti potremmo legittimamente (e più credibilmente) supporre che l’anello che Cesare mostrò all’assemblea fosse quello di Venere; che egli lo mostrò ai tribuni, ai legionari (e a sé stesso) riferendosi alla dea – pronunciandone il nome/parola d’ordine, di protezione e di garanzia - come a colei che avrebbe per prima difeso la “dignitas” del comandante e assicurato la vittoria.
Benché fossero le mani di un militare, combattente per di più, quelle di Cesare dovettero essere curate, del resto, si sa, egli curava con scrupolo la sua persona. Cesare poi prestava estrema attenzione alle mani. Si racconta che le sapesse leg- gere bene, tanto da smascherare, con un loro accurato esame, Alessandro, il falso figlio di Erode.
La chiromanzia è un arte “regale”, la praticò Alessandro, cui l’avrebbe insegnata il suo precettore, Aristotele, che assegnava alle mani il primato fra gli organi corpo- rei umani. La qualità e l’aspetto delle mani dicono molto delle persone. La qualità naturale, l’aspetto e la cura delle mani erano e sono infine integrate e, per così dire, “perfezionate” dagli anelli.
I Romani attribuivano un elevato valore all’anello. Un anello era il sigillo di una persona, cioè il mezzo attraverso il quale esso poteva imprimere il segno della propria potestà e autorità, in ogni circostanza. Perché si potesse “imprimere” il proprio segno, l’emblema di un anello doveva quindi in primis “esprimere”, in sintesi, la “qualità” dell’essere umano che lo portava. L’anello poi si caricava, per effetto della vita, anche di poteri che dipendevano dalla “Fortuna” della persona che lo aveva portato. Ancor oggi si attribuisce ai metalli la possibilità di essere usati come veicoli di trasmissione di “influenze” positive e negative. Una parte dell’effetto che le esperienze della vita producono sull’anima di una persona, veniva “incorporato” negli anelli che aveva portato; gli eredi avrebbero quindi po- tuto farne un uso ricco e complesso, concreto e astratto al tempo stesso, ma sempre effettivo. In molti casi gli anelli seguivano, anche per una ragione di pru- denza, il defunto nella sepoltura. Si può facilmente immaginare quanto fossero “carichi” gli anelli di Cesare, uno in particolare.
Cesare più di tutti doveva sapere quanto l’anello con sigillo fosse importante per un romano.
Appena giunto in Egitto, i primi di Ottobre del 48 a.C., gli venne recapitata la testa tagliata di Pompeo: inorridì e scoppiò in lacrime quando ricevette l'anello, il sigillo del rivale, su cui era inciso un leone che tiene una spada nelle sue zampe. Si assicurò poi che Cornelia, la vedova ricevesse le ceneri e l’anello del marito. E Cornelia li portò “a casa”, come diremmo oggi, dove le une e l’altro avrebbero potuto essere i mezzi del prolungamento dell’azione del proprietario, anche da morto, sui vivi. Un’impalpabile eredità poteva influenzare la famiglia, la clientela, e per cerchie sempre più ampie la città stessa di Roma. Era frequente infatti che il sigillo delle persone comuni fosse rappresentato da un’immagine degli antenati (è conosciuto l’esempio di Lentulo e volendo si potrebbe far rientrare lo stesso Cesare nel caso).
Possiamo supporre che alla morte di Giulio Cesare l’anello di Venere armata sia stato salvato e conservato da Ottaviano Augusto. Sicuramente Augusto ne era in possesso al tempo di Filippi, nel mese di Ottobre del 42 a.C..
Augusto ebbe diversi anelli, con sigillo, che portò in epoche diverse della sua vita. In uno era rappresentata la Sfinge, in un altro Alessandro Magno, nel terzo infine il proprio ritratto, inciso da Dioscuride.
A Filippi tuttavia, fu determinante, il sigillo del padre.
E’ l’ultima volta che l’anello di Cesare appare nella storia, in un finale di partita impressionante (le battaglie di Filippi), in cui manifesterà, ancora una volta, tutto il suo straordinario potere. E’ un apparizione che conferma quanto Ottaviano fosse debitore della buona fortuna all’intercessione sovrumana di suo padre, ormai celeste, presso Venere stessa, fonte di un potere che – a ben vedere – ancor oggi abita Roma, disponibile per chi sappia trovarlo.
Un tessalo sognò di aver incontrato l’ombra di Cesare, percorrendo un sentiero fuori mano. Cesare lo mise a parte di preziose rivelazioni e lo pregò di riferire ad Augusto le sue parole. Il messaggio consisteva in due determinanti informazioni: la prima sul giorno esatto in cui avrebbe avuto inizio la battaglia che si sarebbe da lì a poco combattuta, la seconda sulla necessità, per ottenere la vittoria, d’indossare un oggetto che Cesare avesse portato da dittatore Informato, Ottaviano indossò “immediatamente” l’anello, l’anello di Venere, che aveva già con sé; si dice che da allora lo abbia indossato molte altre volte ancora. E così Ottaviano vinse a Filippi. Attraverso l’anello, Venere armata, che Cesare aveva invocato in vita tante volte, schierò ancora una volta la buona fortuna sul campo di battaglia, a fianco di Ottaviano e, con l’aiuto determinante delle legioni dei veterani (III, VI, VII, VIII, X Equestris, XII, XXVI, XVIII, XXIX e XXX), la assicurò la vittoria alla parte “giusta”. L’anello fu determinante nell’impedire che il potere del mondo finisse nelle mani di traditori.
Consolidato il principato, addolorato per le vicende familiari che amareggiavano la sua vecchiaia, forse sgomento per la mancanza di un vero erede della dignità imperiale, si può immaginare (e sperare) che Augusto abbia voluto portare con sé l’anello di Venere anche al termine del suo transito terrestre, della sua “recita” - come egli chiamò la sua vita - nel mausoleo che si era fatto costruire. E’ possibile dunque che l’anello sia ancora oggi a Roma, nascosto da qualche parte, ed eserciti da lì una sorta di protezione latente sulla città, in attesa di tempi migliori.
Il “carisma” di Cesare si trasmetteva anche attraverso il suo anello. Le qualità che l’anello manifestò le conosciamo: sono la buona volontà, le disinteressate “mansue- tudine et misericordia”, la generosità, la beneficenza, la munificenza etc. affermate e difese, se necessario, con un sano realismo e con la forza delle armi.
La superiorità di Cesare risiedeva nella sua consapevolezza.
La naturale espressione di un pieno amore per la vita e la capacità di fare sempre il necessario, con lungimiranza, anche quando il necessario prendeva le sem- bianze del dolore, della guerra, della morte davano a Cesare un fascino ambiguo. Poteva far paura, come può far paura un dio. Ma Cesare era anche un uomo. La sua umanità traspariva nella misteriosa convivenza di un vero distacco - il disinteresse del “signore” che lo allontanava, lo separava dai suoi simili – e di una vera partecipazione - che gli permetteva di comprenderli, di condividere con essi – con i suoi legionari soprattutto – gioie e dolori della vita. Cesare avrà sicuramente vissuto la solitudine, ne avrà sofferto. E tuttavia grazie alla sua superiorità poteva permettersi l’amore per l’amore, una vita all’ennesima potenza, irresistibile che fu interrotta solo dal suo contrario il tradimento e la morte.
Seminario su Ottaviano Augusto nel Bimillenario della morte - Roma, 8 febbraio 2014, organizzato da UPTER
Sabato 8 febbraio l'Upter ha organizzato un interessantissimo seminario su Ottaviano Augusto in occasione del bimillenario della morte, avvenuta nel 14 d.C. o, come sarebbe meglio dire, nel 767 a.U.c., visto e considerato che Augusto, di chi fosse Cristo, non aveva la più pallida idea: ne saranno nati tanti, di bambini, durante il suo lunghissimo governo…
Nato Gaio Ottavio, etereo e fragile pronipote di Cesare, tenace e ambizioso come lo zio, non parimenti talentuoso ma, a differenza di lui, più calcolatore e spregiudicato nell'uso e consumo delle altrui capacità, Augusto fu l'unico imperatore della stirpe Giulio Claudia a morire in età avanzata nel suo letto.
Non potevo perdermi l'occasione di partecipare al seminario: mi è costato la rinuncia a varie ore di sonno nell'unico giorno in cui riesco a riposare un po' di più, ma mille volte ne è valsa la pena. D'altronde, non penso di essere presente al trimillenario.
L'incontro si è svolto all'Accademia di San Luca con la successione di vari interventi che analizzavano la figura e il portato di Ottaviano Augusto sotto diversi punti di vista.
A quanto pare, potrebbe uscire un libro con gli interventi stessi. Intanto mi piace riportare, per chi non c'era, quelli che ho amato di più.
Fulminante e appassionato è stato Maurizio Chelli, dedicando minuti intensi e preziosi alla statua di Augusto di Prima Porta. Ha evidenziato magistralmente che "nella statua di Augusto viene utilizzata l'antitesi che è poi il modo alternativo per esprimere l'ethos permanente e il pathos transitorio, ossia l'essere e l'esistere, i due aspetti contrapposti e poco indagati della statuaria greca richiamati continuamente dagli scultori nei secoli. È una straordinaria invenzione quella di condensare in una visione statica l'essere e in una visione dinamica l'esistere. Così se si guarda da un lato la statua essa appare immobile mentre se la si guarda dal lato opposto la vediamo animarsi.". Ci ha aiutato a capire come la lorica così aderente sia la sostituzione Romana del nudo eroico greco, ha fatto luce sul perché il colore ricostruito, visto nella mostra I colori del bianco del 2005, ci possa sembrare strano: le statue greche avevano molta più pelle da colorare, quindi meno dettagli sgargianti. Ci ha aiutati a sviscerare l'immagine provvidenziale che Augusto dava di sé anche tramite i rilievi sulla corazza "la personificazione del Caelum sotto alla quale è la quadriga del Sole preceduta dall'Aurora e da Phosphorus; il re Fraate IV dei Parti che restituisce le insegne - prese ai Romani con la sconfitta subita da Crasso - a un generale romano che potrebbe essere identificato in Tiberio; le personificazioni di due province vinte, la Germania e la Pannonia; due Vittorie alate; la Tellus, semisdraiata e con la cornucopia. La presenza del Sole, dell'Aurora e della Terra fanno assumere all'evento un significato cosmico."
Altro intervento appassionato e appassionante è stato opera di Giuseppina Micheli che, tramite l'analisi attenta e scientifica dell'Ara Pacis, ci ha parlato di tre donne Romane: Livia, Giulia e Antonia Minore.
Giulia era pienamente figlia di suo padre, anche nel desiderio. Eppure, per quanto ai voleri del padre si sia piegata più volte con matrimoni dinastici, rompeva troppe regole non scritte per andare d'accordo con il programma politico voluto da Augusto stesso.
Livia, esecrata a torto dalla tradizione, rappresentava la matrona e first lady tradizionale: colei che ha tessuto e cucito gli abiti per l'uomo più potente del mondo. Valori consolidati che Augusto voleva promuovere, pur essendo tutto meno che uno stinco di santo.
Quindi nell'Ara Pacis, Livia appare come "simbolo della tradizione della virtus degli avi, Giulia come l'incarnazione della ribellione verso la rigida morale augustea. E due diversi destini accompagneranno questi simboli della transizione politica-sociale di Roma: Livia che venne acclamata come mater familias e Giulia che, presa la via dell'esilio, non mise più piede nella città che l'aveva vista come protagonista della mondanità."
Ma nei marmi bellissimi appare anche Antonia Minore che scardina, in maniera sorprendente, la dicotomia - piuttosto tenace in verità, visto che ci sbattiamo ancora la testa dopo duemila anni - tra sante e mignotte. "È rappresentata accanto al marito e al figlio primogenito, Germanico, che venne amato dal popolo di Roma. Druso è rappresentato con abiti militari, diversamente dalle altre figure maschili in abiti civili, perché fu sempre ricordato come eroico difensore del fronte germanico; il piccolo Germanico, di appena due anni, sembra già fiero del suo status e sta dritto e compunto accanto ai genitori. Ma la testa di Antonia Minore crea un'interruzione nell'andamento della processione: si rivolge al marito, lo guarda. È il gesto spontaneamente umano di chi sente di avere un legame speciale con il vicino. Secondo le fonti, Antonia Minore ebbe affetto indiscutibile nei confronti del marito, tanto da chiedere, dopo la sua morte, una speciale dispensa per non doversi sposare di nuovo, come chiedevano le leggi in vigore. Un esempio di concordia familiare mostrato da quel gesto di amorevole tenerezza nel volgere la testa verso di lui." Nell'Ara Pacis un'altra figura, più sullo sfondo, intima il silenzio ad Antonia e Druso. Insomma, il guastafeste di turno non manca mai. Nemmeno in questo sensazionale spaccato di Storia e Umanità che è l'Ara Pacis.
Tutti gli interventi sono stati interessanti e di ottimo livello, confermando l'Upter come uno degli ultimi baluardi della cultura come tesoro di tutti e accessibile a tutti, a prescindere da età e condizioni economiche.
[...] Questo è il Cesare che agli inizi del 49 varcò il Rubicone e inaugurò la terza guerra civile (dopo quella sociale e quella tra Silla e i mariani). La Schudffrage sulle responsabilità di Cesare e del senato e questione tanto complessa quanto in ultima analisi insolubile: nessuno volle recedere dalle sue posizioni, ma il senato, trattando il conquistatore delle Gallie alla stregua di un qualsiasi governatore provinciale, lo offese profondamente nella sua dignitas per provocarlo alla guerra nella convinzione di poterlo facilmente schiacciare grazie all'appoggio di Pompeo. Cicerone scrive malignamente che Cesare non aveva una causa per cui combattere e se ne inventò una (Cic., Ad Att. 7, 3,5,); Cesare a sua volta dichiarò, in puro stile popularis, di intervenire a favore del popolo Romano oppresso da una fazione di pochi, i nobili (BC, 1, 22,5); il nocciolo della questione fu colto da uno storico ottimate, Q. Elio Tuberone, che etichettò la guerra civile come una dignitas contentio, alludendo alla rivalità tra Cesare e Pompeo (fr. 4 Malcovati in Quintil. lnst. orat. 11,1, 80). Dietro questa rivalità lo storico moderno ravvisa tutto il valore che rivestiva la dignitas per la mentalità e il sistema etico-sociale, il cosiddetto mos maiorum, dell'antica Roma: Cesare con la sua memorabile impresa gallica aveva incrementato a dismisura il prestigio della sua gens innanzitutto e poi quello della repubblica; se il senato, espressione dell'intera classe dirigente di quella stessa repubblica, non era più in grado di tutelare tale dignitas, anzi addirittura rifiutava di riconoscerla, allora non era più degno di governare; di conseguenza andava rimosso, se necessario con la forza: infatti tra il rispetto per il senato e il rispetto per il valore prepolitico della dignitas, consustanziale a ogni cittadino, non ci poteva essere dubbio che quest'ultimo meritasse la precedenza.
Come si può vedere, c'e allora una continuità e una coerenza di fondo tra il pontefice massimo sconfitto nel 63 e il vittorioso condottiero del 49: in entrambi i casi lo scontro è tra le istituzioni (da difendere contro i congiurati, da non offendere col passaggio del Rubicone) e "ciò che sta prima", ciò che costituisce l'inviolabile essenza del cittadino romano e, in sintesi, dell'uomo libero (il diritto d'appello, la dignità individuale)[...].
Via dei Fori Imperiali: come ti vorrei - di Sonia Morganti
Fino al 31 agosto Via dei Fori Imperiali sarà interamente pedonale, come già lo è diventata parzialmente da qualche mese. Novità accompagnata da grandi polemiche, spesso pilotate da interessi politici legati al qui e ora e avulsi dalla realtà.
Per anni ho lavorato in zona a strettissimo contatto con gli abitanti e trovo patetico decantare i tempi in cui si passava sotto gli archi con la macchina, specie quando lo scopo è percorrere un chilometro scarso impiegando, causa traffico, lo stesso tempo che ci si impiega con la metropolitana. Perché la zona è servitissima: autobus, tra cui varie linee express e tre fermate della metropolitana (Repubblica, Colosseo e Cavour) vicine tra loro se si è dotati di un normalissimo paio di gambe.
Su un quotidiano nazionale è stato persino pubblicato un elogio della doppia fila, perché se la gente non può parcheggiare in doppia fila non compra e l'economia si ferma.
Bene, io odio la doppia fila. Crea caos, rumore, smog, pericolo, rovina il panorama, mi fa passare voglia passeggiare, mi spinge a chiudermi nel mio antro di borgata e serrare inflessibilmente il portafoglio. A chi non rispetta le regole io non dò nemmeno uno dei miei sudatissimi euro.
Figuriamoci il trauma per un turista che viene da qualsiasi città europea, dove la macchina è un'eccezione e non la regola da imporre a tutti, volenti o nolenti, al limite della violenza.
Che la doppia fila diventi un valore per l'economia della Capitale può accadere solo in un posto dove gli interessi politici e privati sono assolutamente deviati verso una perversione egoistica e miope.
L'Associazione Culturale SPQR aveva organizzato un evento - peraltro molto bello, di cui ho pubblicato le foto - ai piedi della statua di Cesare, per celebrarne il giorno di nascita.
Armata direttamente di fotografo, ossia il mio compagno, non potevo mancare ed ero lì con un certo anticipo.
Ho avuto modo di camminare a lungo, quindi.
Non sono un persona benestante ma, grazie alla Ryanair, ho viaggiato abbastanza, esplorando le città europee con i cinque i sensi all'erta. E mi sono fatta una certa idea di come una capitale debba essere tenuta.
Mentre aspettavo l'evento ho visto un po' di tutto: orribili chioschi di frutta di cui, noi cittadini, sappiamo molto, musicisti discreti e gente che creava un caos fastidioso, pittori, artigiani e venditori di stampe. Ho visto, soprattutto, orribili finti gladiatori, con peli di scopa in testa, pretendere sfacciatamente foto a pagamento dai turisti, al limite della molestia. Gli stessi figuri che finiscono spesso sulla cronaca locale per rissa.
C'è una grande polemica a riguardo sui blog antidegrado, che seguo sempre. A volte, come tutte le polemiche su internet, degenera in flame e si trasforma in uno sfogatoio di bassi istinti stile "riapriamo i forni crematori". Io non sono per queste facili generalizzazioni e questi crassi inviti alla violenza, che lasciano il tempo che trovano in qualsiasi lettore di buon senso. Quando c'è un problema non si tenta nemmeno di risolvere, è chiaro che questo problema fa comodo a qualcuno.
Credo però fermamente nell'idea che, se una persona non sa tutelare la propria anima, apre la strada alla rovina del proprio corpo. Io credo che il Foro romano sia l'anima di questa città: non mi stupisce quindi quanto il corpo di essa sia diventato osceno.
Abbiamo bisogno di chioschi che vendono frutta e acqua a prezzi spropositati e si infilano in ogni foto ricordo? No. E sappiamo bene cosa c'è dietro.
Ma con tutto il fantastico spazio che ci sarebbe in una via completamente pedonalizzata, si potrebbero invece progettare spazi discreti, ben tenuti e ben posizionati, con eccellenze italiane da acquistare per ritemprarsi, oppure da assaggiare e poi prenotare, perché siano recapitate in albergo o a casa. Punti informazione con personale qualificato, non raccolto seguendo il solo criterio risparmio. Visite guidate di vario genere, gratuite o a pagamento, per vari target, che partono da punti definiti. Eventi culturali di valorizzazione del luogo, per tutti i palati.
La prima volta che ho visto un artista di strada fare l'uomo invisibile, ero a Londra. Lui era bravissimo, professionale e non chiedeva soldi. Dopo un anno e mezzo, a Roma sono arrivati un esercito di uomini invisibili, non professionali e palesemente cenciosi, che prima invitano a fotografare e poi chiedono soldi.
La gestione dei musicisti di strada a Londra è vincente. Ci sono spazi appositi e chi suona e canta sa farlo. L'ascolto è un piacere che si aggiunge alla cornice in cui l'artista si esibisce.
Ieri sera c'erano dei tipi con la batteria non distanti dal Colosseo: facevano un tale frastuono da provocare l'eco a punto che pensavo ci fosse un concerto al Circo Massimo!
Nel mio cuore, preferirei un'area archeologica immensa, senza asfalto né sampietrini. Vorrei rivivere al centro di Roma la commozione toccante che provai sull'Acropoli di Atene, all'alba di un quindici agosto rovente, quasi dieci anni fa.
Ma, rimanendo ancorati alla realtà, credo che si possa fare molto per offrire all'anima di questa città la dignità che merita. Una dignità viva, magari, mediterranea e gioiosa, ma anche di buon gusto e buon senso.
Mi piace lo spettacolo che si sta tenendo al Foro di Augusto, con la magnifica combinazione dell'esperienza e della tecnologia fornita dalla Capware(ricostruì in digitale la Villa dei Papiri a fine anni 90, quando pochi sapevano cosa fosse il digitale, e ha un curriculum di lavori incredibili: un'eccellenza italiana sconosciuta dagli italiani stessi) e le parole di Piero Angela.
Mi è piaciuto vedere due legioni marciare, illuminando la strada con le torce, e deporre una corona sotto la statua di Cesare. Il buio e la luce del fuoco si confà al cuore di Roma: con gentilezza, quasi con sensualità, illumina e riporta alla vita, mascherando gli scempi del tempo e dell'uomo.
Sono consapevole che questi eventi eccezionali richiedono tempo, energia, lavoro e passione. E, quindi, è impossibile averli tutti i giorni.
Ma credo sia auspicabile averne più e sono certa che questo possa innescare un circolo virtuoso di valorizzazione della nostra più grande ricchezza e della nostra anima.
Buon non compleanno, Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto
Il 19 agosto del 14 d.C. moriva a Nola colui che viene considerato universalmente come il primo degli imperatori romani.
Nato Caio Ottavio di Velletri, stupirà tutti per la tenacia d’acciaio dimostrata dopo essere stato adottato per testamento dal prozio Cesare.
La città si è mobilitata per quel che ha potuto e le celebrazioni sarebbero state ancora di più se questi non fossero tempi veramente oscuri.
L’apertura eccezionale del Mausoleo di Augusto si è meritata il disonore della cronache per un incidente che sarebbe stato meglio prevenire: acqua intorno al monumento per la rottura di una tubatura e un numero di ammessi basso in confronto all'interesse per un monumento mai valorizzato. Passeggiare per Piazza Augusto Imperatore è avvilente: il mausoleo è ingabbiato, circondato da erba incolta, non c’è una targa esplicativa in più lingue, nulla. Solo quel sottile e persistente puzzo di urina che accompagna sempre gli angoli di Roma, come se in una capitale europea mancassero i bagni.
Stupendo il Tyrtarion organizzato dall’Accademia Vivarium Novum all’interno del Foro di Traiano il 30 e 31 agosto. Il talento dei ragazzi che si sono esibiti aveva dell’incredibile: giovani, poliglotti, musicisti e cantanti, in grado di riportare in vita le antiche poesie dei latini come se tutti fossimo ospiti alla corte del Magnifico. La cornice suggestiva e la presentazione vivace, eloquente e nello stesso tempo misurata, hanno completato la perfezione di questa ciliegina sulla torta. Anche qui, i problemi principali sono rimasti legati alla comunicazione sui canali ufficiali: difficile sapere fino alla fine le modalità per prenotarsi e, dalle scene viste all’ingresso, su qualche giornale il Tyrtarion doveva essere stato descritto come a ingresso libero, senza specificare che la prenotazione era obbligatoria. La bellezza suscite interesse ed emozione, è ora che le istituzioni prendano atto di questa realtà (splendida).
L’Ara Pacis si è fatta ammirare fino alla mezzanotte, illuminata dai luci colorate che, proiettate nei punti giusti, hanno ridipinto e rianimato il monumento, enfatizzando la sua grazia classica. Grazie al seminario su Augusto organizzato dall’Upter, cui ho assistito a febbraio, mi è stato possibile far apprezzare ai miei amici dettagli altrimenti sconosciuti, come l’abilità di rappresentare sinteticamente la storia di Druso e Antonia Minore. Il grande entusiasmo che ha animato il gruppo mi ha spinta persino a concedermi una foto con la gens Iulia. Sono dogmaticamente contraria ai selfie, ma in questo caso…
Lo spettacolo al Foro di Augusto continua con grandissimo successo, e per chi non ci fosse ancora stato, c’è tempo fino al due novembre. Il sodalizio tra arte classica e nuove tecnologie si conferma un matrimonio felice e fecondo. Ora che le temperature iniziano timidamente a calare, perché a Roma abbiamo ancora 28° anche se ottobre è già sfilato via per metà, è più facile trovare i biglietti. In Agosto, invece, abbiamo dovuto prenotare online con una settimana di anticipo.
E' ancora presente, e lo sarà fino a giugno 2015, la mostra Rivoluzione Augusto presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Luogo incantevole che soffre, probabilmente, la vicinanza della stazione Termini, uno dei covi di feccia peggiori della galassia. Intento a sfuggire dai borseggiatori, il turista passa oltre e perde la possibilità di visitare in un museo tanto ricco che bisogna preventivare il giusto tempo da dedicargli. Ed è un peccato, perché Palazzo Massimo ha un’eccezionale collezione di statue (tra cui Augusto in veste di Pontefice Massimo), busti e stupendi mosaici cui è dedicato interamente l’ultimi piano.
La mostra dà spazio ai cambiamenti del calendario: l’inserimento di festività legate alle vicende dell’imperatore la dice lunga sul vero ruolo del princeps e contrasta splendidamente con la citazione delle Res gestae che ci accoglie all’ingresso del museo; e questo ci aiuti a comprenderne l’importanza. E' possibile, inoltre,assistere alla proiezione di “A- Elegia di Augusto", cortometraggio di successo che, avevo già visto al Museo Palatino. Merita una menzione, a mio avviso, l’illuminazione suggestiva che fa galleggiare le statue tra il buio e lo sfondo rosso.
Augusto diceva di aver trovato una città di mattoni e di averla lasciata di marmo. La mia parte infantile lo immagina mentre guarda in basso e picchetta nervosamente le dita della mano destra. Con i suoi glaciali occhi capricornini ci valuta e si appella alla sua pazienza per trattenere i fulmini.
Avremmo potuto fare di più: la bellissima mostra alle Scuderie del Quirinale è stata chiusa in febbraio 2014e ha trascorso gran parte dell'anno in Francia.
Il mausoleo di Augusto è diventato un monumento all’incuria, alla sciatteria e all’inefficienza italica mentre questa poteva essere un'occasione di peso anche mediatico per riportarlo alla dignità.
La comunicazione da parte del Comune è stata disorganica e può sempre peggiorare perché pare che il call center 060606, faro per i cittadini smarriti, rischi di spostarsi in un paese dell’est.
La situazione di Roma è agli antipodi di quella in cui Augusto la lasciò. Dal marmo siamo scivolati nella merda. Domina la legge del più forte, per cui l’automobilista mangia il pedone e il ciclista ma quello con il suv fa scacco matto anche alla Polizia. Sta a noi agire perché la “m” riprenda a indicare meraviglia, monumentalità… anche dei mattoni ci accontentiamo. Di merda, però, ora basta.
Il matrimonio perfetto tra antico e moderno: quando il virtuale riporta in vita antiche realtà
Di recente ho avuto occasione di visitare il MAV - Museo Archeologico Virtuale - di Ercolano e la mostra Keys2Rome all’interno del Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano.
In entrambi i casi le nuove tecnologie virtuali allargano i confini del museo come lo intendiamo e vivificano il rapporto tra le opere e i visitatori.
Il MAV di Ercolano si trova proprio lungo la strada che collega la stazione ferroviaria agli scavi, in un bell’edificio moderno e discreto, segnalato da una scritta colorata. In questo caso il museo è interamente virtuale: ricostruzioni digitali e pannelli interattivi riportano in vita l’antica città vesuviana e mostrano l’eruzione da una prospettiva inedita.
E’ un approccio molto interessante e purtroppo trascurato dai turisti che arrivano a Ercolano. Per esperienza professionale so bene che molti di loro visitano i luoghi di sfuggita, senza coglierne l’essenza, perché magari non hanno la preparazione necessaria o non hanno abbastanza interesse e tempo per cercare un contatto profondo con ciò che vedono.
Una struttura come il MAV dovrebbe essere fatta conoscere di più e andrebbe integrata, magari a livello di biglietti e pubblicità, con quella degli scavi di Ercolano. Le ricostruzioni digitali aiutano a decodificare i ruderi, destano interesse in chi magari ne ha poco, presentando - sotto un linguaggio solo in apparenza differente - lo stesso mondo.
Parlando di Keys2Rome, invece, ci occupiamo di una forma di comunicazione e divulgazione diversa ma parimenti interessante: all’interno del Museo dei Fori Imperiali le nuove tecnologie si integrano con i reperti esposti, ampliando l’esperienza di fruizione. Grazie a una app è possibile visualizzare, tramite il proprio smartphone, maggiori informazioni sul reperto che si sta inquadrando e muovere nello spazio la sua ricostruzione tridimensionale; la realtà aumentata inserisce proprio quel piccolo frammento, isolato davanti ai nostri occhi, nella ricostruzione della statua da cui proviene (l’immagine era un po’ instabile, ma ne riparleremo tra qualche anno) e via dicendo. Per quanto mi riguarda, la vera chicca è stata la stampa in 3D dell’Ara Pacis. Premendo dei piccoli pulsanti sull’oggetto, lo schermo di fronte mostrava la ricostruzione di quel punto preciso, alcune foto di archivio relative alle condizioni di ritrovamento et similia, alcune informazioni.
Il matrimonio tra le nuove tecnologie e l’umanesimo è, secondo me, uno dei migliori che si possano celebrare: i contenuti immortali danno un senso ai media che, a loro volta, amplificano la voce del passato, che suona come un sussurro troppo educato nel nostro rumoroso tempo.
Grazie al web possiamo fruire di siti come la Perseus Digital Library o il più noto Progetto Gutenberg, possiamo rendere comprensibile e appetibile a un pubblico più vasto il valore del nostro patrimonio storico e artistico. Credo che ogni persona in più a varcare la soglia di un museo sia una vittoria.
Prima conferenza del ciclo: "Luce sull'archeologia" - Le idi di marzo a largo Argentina
di Sonia Morganti
“Se Cesare avesse chiamato i cittadini intorno a lui,
non ne avrebbe raccolti tanti come oggi”
Anonimo con la barba bianca, in fila come me.
“Luce sull’archeologia” è il titolo, elegante ed evocativo, di un ciclo di conferenze a cadenza quindicinale organizzato dal teatro Argentina in collaborazione con la Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale.
Il primo appuntamento non poteva che essere dedicato alle Idi di Marzo, che proprio sotto quelle mura si sono svolte, e si è tenuto la mattina di domenica 11 gennaio, con la presenza della dottoressa Mattei, del professor Filippo Coarelli e della bravissima attrice Maddalena Crippa.
Fortunosamente io c’ero.
Sono venuta a sapere di questi incontri davvero per puro caso la mattina del venerdì precedente. Ho chiamato immediatamente il teatro e… chissà, forse la Fortuna di Cesare mi ha di nuovo sorriso, visto che ho preso subito la linea nonostante le tante chiamate che, ho poi saputo, hanno causato il collasso del centralino.
Sono riuscita solo alasciare il mio nominativo in una lista d’attesa da cui avrebbero attinto in caso di assenze tra coloro che, invece, erano riusciti a garantirsi il posto.
Il successo della conferenza ha spiazzato gli organizzatori, che dapprima pensavano di avere a che fare con alcune centinaia di persone, poi hanno aperto a un massimo di settecento per accoglierne, infine, più di mille, ben oltre il limite di capienza e della lista d’attesa.
Evidentemente questa Roma, sbattuta con la faccia nel fango da una classe dirigente marcia, ha sete di bellezza, cerca l’emozione inspiegabile di bere l’acqua sempre fresca della propria antica sorgente.
In questo senso mi piace intendere i disagi dell’organizzazione come uno splendido segnale: forse una timida luce prima dell’alba?
La conferenza è iniziata con i saluti di rito e con un doveroso minuto di silenzio pensando alla strage avvenuta nel periodico satirico Charlie Hebdo. Vale la pena di ricordare su questo sito, dedicato al mondo di chi spese parecchi anni nelle Gallie, che tra i frammenti rimasti delle opere di Cesare possiamo leggerne uno in cui parla proprio della vis comica, di quella spezia unica che provoca il riso con il suo sapore intenso, magari pungente. Questo in occasione del confronto tra il pacato Terenzio e il suo punto di riferimento, il più vivace Menandro. La personalità di Cesare si manifesta per un istante e ci mostra qualcosa che, tutt’oggi, è nostro un tesoro.
Il direttore del teatro ci ha poi preannunciato un grande evento - l’ha definito “un rito” - in occasione delle Idi di Marzo del 2017, dedicato a Giulio Cesare e se possibile proprio all’interno dell’Area Sacra di largo Argentina.
Le sue parole mi hanno affascinata e colpita come una freccia, per l’immediatezza con cui trasmettevano la vitalissima presenza di una Roma mai passata, che alcuni di noi paiono ancora sentire: non è morta, semplicemente sussurra e bisogna concentrarsi bene, con orecchio fino, per udirla ancora tra il traffico e lo squallore che grida vendetta.
La dottoressa Mattei ha quindi iniziato a spiegare, con l’aiuto di alcune diapositive, la storia dello scavo di Largo Argentina: da dove siamo partiti, dove siamo arrivati, verso quali obiettivi ci stiamo dirigendo. Ascoltarla è stato un piacere immenso per tutti gli amanti dell’archeologia.
Questa zona ha un valore che affonda nei tempi più antichi e misteriosi di Roma e ne risale la storia attraverso edifici importantissimi che, ai nostri occhi, assumono una valenza sociale e simbolica senza pari.
Rischiò brutto negli anni ’20, quando gli edifici medievali che la occultavano furono sbancati per far spazio a un complesso residenziale di lusso. Ma l’intuizione e la tenacia dell’archeologo Marchetti Longhi, e anche il suo pragmatismo, permisero di salvare la zona che lui stesso definì “sacra”. Iniziano gli scavi e con essi le scoperte.
Ho trovato interessantissima il racconto dei metodi usati dagli archeologi per datare i resti, in particolare quelli del tempio C poi attribuito a Feronia.
Questa divinità sabina legata alle acque, alla fertilità e alle probabili sorgenti sotterranee che bagnano continuamente l’argilla rendendo il lavoro degli archeologi ancora più faticoso, ci riporta persino alla tribù dei Tities. E i vari tipi di tufo trovati nei livelli di scavo hanno permesso di datare il tempio confermandone l’immenso valore.
Ma anche il tempio B, che ci appare rotondo ma che aveva una parte frontale squadrata, ha una storia da narrare: il suo aspetto ibrido racconta di Lutazio Catulo, che lo costruisce in onore della “Fortuna di questo giorno”, quello in cui vinse a Vercelli sui Cimbri. Come le forme del suo tempio, anche lui era a metà tra il mondo greco e quello romano tradizionale: era un valente militare ma anche autore di raffinatissimi componimenti a tema omoerotico.
Ed è proprio alle spalle del tempio della Fortuna che qualcosa accade.
Qualcosa di cui ci parlerà in maniera concisa ma incisiva il professor Coarelli.
Contiguo al recinto dell’area sorgono la villa di Pompeo, il suo teatro - il primo in muratura di Roma - con il tempio di Venus Victrix, i suoi portici e la curia.
Siamo nel Campo Marzio, un’importantissima area pubblica a ridosso del pomerium: che un privato costruisca a suo nome è indicativo del potere di Pompeo, così spesso investito da imperium da aver bisogno di una casa e di un luogo dove riunirsi con i senatori senza varcare i confini sacri della città.
L’archeologia, per identificare i luoghi in termini assoluti, ha bisogno dell’aiuto di altre discipline e in questo caso la letteratura fa la sua parte: Cassio Dione, Damasceno, Appiano e tanti altri ci confermano che quel vano chiuso è il locus sceleris, la Curia Pompeia dove il senato si riunì il 15 di marzo del 44 a.C. e dove Cesare trovò morte.
Ma la domanda che ci pone il professor Coarelli, nella sua semplicità, è geniale: perché lì?
L’ex Curia Hostilia era tutto un lavoro in corso per trasformarla nella Curia Iulia, però il senato era solito riunirsi anche in templa.
Che non vuol dire “templi” ma luoghi recintati e “inaugurati” ma non consacrati. Il tempio in termini italiani è aedes e non ogni templum è un aedes… anche se possono coincidere, in tutto o in parte.
Cesare stava per partire per la campagna partica e, probabilmente, era già stato investito dagli auspicia militari. E’ vero che entrava e usciva liberamente dal pomerium, ricoprendo tutte le cariche istituzionali, e che abitava nella Regia, la dimora pubblica del Pontefice Massimo, proprio nel cuore del Foro.
Ma è anche vero che, forse, quella particolare formalità manteneva una sua importanza per Cesare, che l’aveva clamorosamente violata già troppe volte, varcando in armi il Rubicone prima e il pomerium poi.
Come Coarelli osserva sarà per Augusto, anche più che per il prozio e padre adottivo, che varrà il rovesciamento della massima del Gattopardo: “Bisogna che tutto resti uguale perché tutto cambi”.
Nel Campo Marzio il senato usava riunirsi con il comandante ancora (o già) in carica, sfruttando come sedi i templi di Apollo, di Bellona o la Curia Pompeia.
In questa rosa di possibilità, gli attori della Storia hanno fatto la scelta più simbolica.
Ma la recitazione appassionata di Maddalena Crippa ci ricorda come, nell’immaginario collettivo e nella forza simbolica del Genius Loci, quel luogo ormai appartenga a Cesare.
Non a Bruto, non più a Pompeo.
Il testo che ho scritto si basa sugli appunti che ho preso durante la conferenza, cercando di essere estremamente accurata.
La sapienza e la capacità di trasmetterla appartengono alla dottoressa Mattei e al professor Coarelli.
Di mio ho messo solo la voglia di condividere l’emozione e la bellezza di cui sono stata resa parte e… un po’ di dolore al tunnel carpale!
Purtroppo, al contrario di quel che avrei voluto fare, non posso condividere immagini o video: mi avevano assicurato, davanti a più persone in coda con me, che avrei potuto chiedere materiale per il sito all'ufficio stampa, salvo poi negarsi ripetutamente, sia per email sia di persona (e mi sono presentata tre volte). Atteggiamento molto infelice, considerato che, durante la conferenza, un sacco di gente si è fatta persino i selfie e un figuro con il posto riservato era così interessato al tema da passare tutto il tempo giocando a Candy Crush con lo smartphone. Come lo so? Ero in alto e vedevo tutto. L'Italia non smentisce la sua fama di paese di Pulcinella, dove la cultura deve essere appannaggio di chi può dire: lei non sa chi sono io.
Le Idi di Marzo e la vera storia di Cesare e di Bruto il banchiere usuraio - di Domenico De Simone
- potete leggere il suo articolo anche sul suo blog - clicca qui
Quella che voglio raccontare è la vera storia di colui che viene presentato come il difensore delle libertà democratiche e repubblicane di Roma, Bruto, il capo riconosciuto dei congiurati che uccisero Giulio Cesare alle Idi di Marzo del 44 a. c.
Cassio Longino volle coinvolgerlo e nominarlo capo dei congiurati per via della sua lontana discendenza con quel Lucio Giunio Bruto che nel 509 aveva scacciato Tarquinio il Superbo.
Cassio Longino era deluso da Cesare, che gli aveva preferito il fidato Antonio nel consolato e l’aveva relegato a fare il pretore insieme a Bruto.
Servio Sulpicio Galba, prozio dell’imperatore, altro congiurato, era stato trombato alle elezioni nonostante fosse candidato dei cesariani, ed era animato da invidia e rancore.
Gli altri, da Decimo Bruto a Gaio Trebonio erano tutti esponenti della classe dominante romana che vedeva nella politica popolare e populista di Cesare un attacco mortale al proprio potere.
Insomma, la storia che la congiura fosse stata dettata da un rigurgito di spirito repubblicano repentinamente sollevatosi dall’intellighenzia romana dopo sessant’anni di guerre civili, durante i quali le istituzioni repubblicane erano via via diventate sempre più inconsistenti, non mi è mai andata giù. Mi è sempre sembrata più che altro una bella scusa per giustificare l’assassinio di un uomo politico che godeva di grande favore presso il popolo romano che, dopo la sua morte reclamò a gran voce la punizione dei colpevoli fino ad ottenerla.
E allora andiamo a vedere meglio che cosa fosse successo e perché Cesare era tanto inviso agli ottimati.
E scopriamo una divertente sorpresa, perché anche qui la storia non ce l’hanno raccontata giusta.
Marco Giunio Bruto faceva il banchiere. Anzi per la verità faceva proprio lo strozzino, visto che chiedeva interessi che definire usurai è un eufemismo.
Gaio Giulio Cesare era notoriamente un avversario irriducibile degli strozzini romani. Che comunque l’hanno finanziato sia per le campagne elettorali che per le guerre, ma che dopo la conquista del potere, furono duramente colpiti nei propri interessi da Cesare.
Sull’avversione di Cesare nei confronti degli strozzini abbiamo numerose testimonianze: la più divertente ce la riferisce Svetonio. Durante i trionfi per le vittorie conseguite in giro per il mondo (Cesare ne fece quattro consecutivi da agosto a settembre, e furono giornate di gran festa per il popolo romano) I soldati delle Legioni avevano licenza di dire tutto quello che volevano dei propri comandanti. E così i soldati di Cesare cantavano tra gli altri, un distico che recitava così: urbani, seruate uxores: moechum caluom adducimus. aurum in Gallia effutuisti, hic sumpsisti mutuum (Cittadini sorvegliate le vostre donne! Vi portiamo lo zozzone calvo che ha sperperato con le donne in Galia i soldi che ha preso a prestito dai romani) [Svetoni Tranquilii Vita Divi Iuli, 51] . Distico che avrebbe suscitato l’invidia di Berlusconi che, in quanto a donne, non si ritiene secondo a nessuno. Tuttavia Berlusconi si è poi rifatto con il lodo Alfano, che prevede un’immunità più ampia della Lex Memmia che Cesare fece applicare a sé stesso prima di partire per la Gallia e che impediva di mettere sotto processo il politico che fosse impegnato in campagne militari all’estero (cioè lui) per tutto il periodo di servizio.
Pare che al momento della partenza per la Gallia, egli fosse inseguito da una torma di strozzini che volevano portarlo in Tribunale per farsi restituire il credito. Sembrava infatti, che con il Primo Triunvirato Cesare avrebba avuto l’assegnazione dell’Oriente, che invece fu preso da Crasso (che poi ci trovò la morte ad attenderlo). Invece, a Cesare toccò la pericolosissima Gallia, dalla quale solo quarant’anni prima provenivano i Cimbri e i Teutoni che solo un grande Mario riuscì a sterminare.
Oltretutto in Gallia, oltre a popolazioni bellicose e temibilissime, non c’erano nemmeno grandi ricchezze, e così certi finanziamenti erano diventati ad altissimo rischio e gli strozzini volevano farseli restituire prima che Cesare partisse. Non ricordo più chi racconta che Cesare decise di far partire la lettiga con i Littori e la scorta vuota, per evitare di essere toccato dai suoi creditori e costretto ad andare davanti al giudice (la citazione in giudizio funzionava così), e dovette partire di nascosto pare travestito da donna e da Ostia.
Comunque sia, una volta conquistato il potere assoluto, Cesare mette mano alla riforma in senso democratico dello Stato per venire incontro alle esigenze dei populares che l’avevano sempre sostenuto. Promulgò una serie di leggi che per gli strozzini romani furono una vera iattura. A partire dalla lex Iulia de bonis cedendis, con la quale stabilì non solo l’istituto della cessione dei beni ai creditori per liberarsi dei debiti (istituto che è ancora la base del diritto fallimentare) ma soprattutto che, nel calcolare l’ammontare del credito, i beni ceduti fossero valutati al prezzo che avevano prima della guerra civile (e quindi molto di più), e con la Lex Julia de pecuniis mutuis stabilì che le somme pagate a titolo di interessi, andassero invece a scomputare il capitale (e così molti strozzini si videro costretti a restituire i beni presi alle loro vittime) abolendo al contempo il pagamento degli interessi.
Altra legge contro i ricchi fu la Lex Julia de mercedibus habitationum annuis [la pagina linkata richiama erroneamente la de pecuniis mutuis, ma le frasi citate da Dione Cassio e Svetonio sono invece riferite a questa legge], che stabiliva il prezzo massimo degli affitti in città (Eh sì, proprio l’equo canone!) che durante la guerra civile erano saliti molto per l’afflusso di profughi a Roma. A Roma non più di 2.000 sesterzi, in Italia non più di 500 sesterzi. Insomma un disastro per gli immobiliaristi!
E che dire, poi, della legge Lex Iulia de modo credendi possidendique intra Italiam, che obbligava i ricchi a possedere almeno il 60% del proprio capitale in Italia, legge che non prevedeva alcun condono per il rientro dei capitali dall’estero.
Forse la goccia che fece traboccare il vaso della scarsa pazienza dei ricchi ottimati, fu però la riforma della Lex frumentaria, che risaliva ai Gracchi e prevedeva la distribuzione ai cittadini indigenti di una quantità di frumento ed altre utilità alimentari sufficienti per farli vivere.
Ovviamente, molti ricchi avevano fatto iscrivere nelle liste dei beneficiari i loro clientes, cui tradizionalmente avrebbero dovuto provvedere con le proprie sostanze. Insomma, niente di diverso dalle pensioni di invalidità generosamente erogate agli amici ed elettori di certi nostri politici.
L’elenco dei beneficiari della legge era divenuto enorme grazie a Clodio e all’appoggio degli ottimati. Al momento della riforma erano iscritti oltre 350.000 cittadini che Cesare ridusse a poco più della metà, costringendo molti ricchi a riprendersi in carico i propri protetti.
Insomma, i ricchi e gli usurai non erano certo contenti della politica di Cesare nei loro confronti. Soprattutto non poteva esserlo Bruto, il quale come dicevo, faceva il banchiere. La cosa ci viene raccontata da Marco Tullio Cicerone il quale in una lettera a Attico, la XIX, riferisce che Bruto era il vero proprietario della somma di di trentatrè Talenti d’oro (una cifra enorme) prestata alla città di Salamina. Dice che Bruto gli aveva presentato l’operazione come effettuata da suoi amici, tali Scaptius e Matinius, che erano invece i suoi agenti in Grecia.
Il prestito era stato effettuato al tasso del 48% all’anno che Cicerone definisce vergognoso. A lui sembrava eccessivo anche un interesse del 12% annuo, figuriamoci quattro volte tanto.
Bruto pretendeva da Cicerone, che allora era governatore della Cilicia, che costui mandasse le truppe per convincere i riottosi debitori della città greca ad onorare il pagamento del debito, nel frattempo divenuto insostenibile per la città. Cicerone non ci pensa minimamente a sporcarsi con simili manovre, e liquida i due agenti di Bruto con generiche rassicurazioni.
Tuttavia comprendiamo per quale ragione Bruto, nonostante la madre Servilia Cepione fosse stata l’amante preferita di Cesare che aveva deciso di adottarlo anche per questo (ma soprattutto per i soldi), nutrisse tanto odio nei confronti del suo patrigno. Per uno che faceva il banchiere all’estero e a quei tassi di interesse, le leggi di Cesare comportavano un drastico ridimensionamento economico e quindi politico. E questo per le ambizioni di Bruto era assolutamente intollerabile.
E allora la storiella della difesa della libertà e delle isstituzioni repubblicane, e un banchiere assassino diventa l’ultimo baluardo della libertà. Le falsificazioni della storia, però, prima o poi vengono sempre alla luce.
E questa storia che usurai, oligarchi e banchieri potessero giustificare il loro assassinio raccontando la favola di essere difensori delle libertà di tutti è sempre meno credibile e smentita dai documenti esistenti. Che provano che la loro fu solo una difesa dei privilegi della loro casta, duramente colpita dalle riforme di Giulio Cesare.
Ora che i nipotini di quegli usurai, oligarchi e banchieri cercano di apparire come i difensori della democrazia nel mondo, la rilettura di questa storia e delle vere ragioni dell’assassinio di un grande uomo come Giulio Cesare è divenuta importantissima, poiché ci consente di capire quali reali motivazioni li spingano verso la guerra.
E come al solito si tratta delle difesa dei loro interessi, e non della democrazia.
E luce fu... - di Sonia Morganti
Per il 21 aprile 2015, ennesimo compleanno di quella che resta un’idea ancora prima di essere una città, Roma ha ricevuto uno splendido regalo.
Un’illuminazione artistica dei Fori di Nerva, Augusto e Traiano ad opera del premio Oscar per la fotografia Vittorio Storaro, in collaborazione con la figlia Francesca, architetta ed esperta in lighting design.
L’evento è stato emozionante ma l'organizzazione ha lasciato a desiderare.
Davanti al Foro di Augusto era stato eretto un palco riservato agli invitati, lungo il marciapiede dei tre Fori imperiali erano posizionate delle pedane rosse per gli Storaro, che si sarebbero spostati man mano che i Fori venivano accesi, per illustrare il lavoro fatto, seguiti dalle autorità.
Poi, dopo un camminamento lasciato libero, c’erano le transenne a contenere una folla curiosa ed entusiasta.
Certo, l’illuminazione è permanente e ci saranno altre occasioni per goderne.
Ma chi era lì voleva vedere il momento dell’accensione, in cui la luce ha sfiorato e curato per la prima volta ciò che il tempo e il buio della ragione hanno ferito.
Sarebbe stato necessario un maxischermo e una diffusione audio adeguata, già utilizzati con successo in occasione di eventi papali, per poter rendere più persone possibili partecipi della meraviglia. Non è la stessa cosa, ma è meglio che stare pressati senza vedere nulla e urlando "Voce!"
Il povero Storaro era invitato continuamente a parlare più forte, però nonostante il microfono non poteva sentirsi lungo tutta la lunghezza e la larghezza di Via dei Fori Imperiali. Un vero peccato, visto che ha spiegato le scelte artistiche e tecniche che erano dietro le diverse illuminazioni. Io ho potuto sentire solo la spiegazione relativa al Foro di Nerva.
Non è stata una serata facile neanche per i giornalisti e i fotografi, costretti continuamente a spostarsi lungo le pedane, a fare spazio, perdendo la posizione necessaria per interviste o riprese (ma usare dei droni?). Dulcis in fundo, nonostante l'evento la linea A della metropolitana ha chiuso alle 21.30, cosa che succederà fino ad agosto per lavori urgenti da finire prima del Giubileo "bonus". Molti miei amici hanno rinunciato a venire in centro per questo motivo, considerando cosa comporta in termini di tempi e costi venire con il mezzo privato dalla periferia. Per ora molte si trovano online, ad esempio qui. Noi torneremo, una sera, armati di cavalletti e panini e rassegnati al caffé il giorno seguente. Peccato, perché si poteva organizzare una serata davvero spettacolare ed emozionante. | ![]() |
La scelta di illuminare un luogo così simbolico, però, fa sperare in un progetto ampio di riqualificazione della zona dei Fori, perché possa a pieno titolo e con la dignità che le spetta, collocarsi tra le aree arecheologiche più importanti del mondo.
E nessuno mi convincerà mai che, in un periodo di crisi, questi siano soldi da risparmiare. Bisogna agire sui privilegi, sulla corruzione, sui vitalizi immeritati e scandalosi. Il Bello è patrimonio dell'Uomo e non si può quantificare, né si deve toccare. Chi parla è una precaria che non accetterà mai di smettere di camminare con gli occhi verso il cielo, ripiegata solo sulla sopravvivenza.
Seguire una conferenza di Romolo Augusto Staccioli è sempre un’esperienza. Professore, scrittore, archeologo, è anche un consumato oratore che sa come incantare il pubblico. Inizia con un preambolo ironico, poi approccia l’argomento in maniera generica, per avvicinarsi a tutti, offrendo però chicche per chi già ha un’infarinatura. Infine, spara l’artiglieria pesante, offrendo un paio di approfondimenti di qualità eccellente. Coinciso e chiaro, ironico ed energico: con il suo solito stile ha deliziato noi uditori anche il 21 aprile, quando alle 16, presso la fondazione “Marco Besso”, ci ha parlato della nascita di Roma.
Dopo anni di diatriba tra coloro che sostenevano la presenza di una fondazione - intesa come atto puntuale e volontario, dal valore politico, topografico e sacrale - e quelli che sostenevano la teoria della formazione, ossia di un progressivo unirsi di villaggi preesistenti in cui il momento di fusione equivale alla fondazione si è giunti a comprendere che le due teorie non sono in opposizione l’una con l’altra.
D’altronde i colli sono sempre stati un luogo strategico, nel punto di incrocio tra un guado del Tevere come l’isola Tiberina, dove peraltro l’ansia formava una spiaggia (“Arenula”) che diventava luogo di soste, scambio e manutenzione. Inoltre i colli sono sull’asse che poi diventerà la Salaria e su quello che diventerà l’Appia.
A un certo punto della storia umana, data la crescita di villaggi e popolazioni, è probabile che sia stato compiuto un atto rituale, frutto di una volontà precisa, puntuale e circoscritta, ossia la fondazione. Se gli scavi archeologici suggeriscono una vera e propria fondazione (muro palificato con tufo, argilla e uno spazio libero coincidente al pomerio), non rispondono ad altre domande a riguardo, tuttavia non esistono nemmeno prove contrarie a questa teoria. Non sapremo mai con esattezza l’anno della fondazione di Roma, anche se la data tradizionale è plausibile, perché i ritrovamenti di nostro interesse risalgono a quel periodo. Possiamo invece ragionevolmente accettare il giorno che ci è stato indicato già dalle fonti antiche, perché si tratta della festa del Palilia, quando le comunità pastorali sul Palatino festeggiavano la nascita degli agnelli.
Non sapremo mai il nome della persona reale e precisa che ha preso l’iniziativa di cambiare le cose, ma possiamo scoprire molte note interessanti sul nome del fondatore tradizionale, Romolo.
Nella necropoli della Cannicella, a Orvieto, è scritto sull’architrave dell’ingresso di una tomba “NI VELTURUS RUMELNAS” ossia “Io sono di Veltur Rumelnas”. Veltur è un bel nome tipicamente etrusco, il gentilizio invece, Rumelna, è formato da un patronimico a cui è stata aggiunta la desinenza -na, come ad esempio è per Porsenna -> Pursin + na, Vibenna, ecc. Quindi Rumelna viene da Rumel(e)+na. Rumele è un nome proprio di persona al diminutivo (come, ad esempio, Titele) e corrisponde al latino Romulus, perché la “o” in etrusco era oscurata e trasformata in “u”
Romulus quindi è diminutivo di un nome come Rumo o Romo, che suona come Remo. Un nome unico, quindi.
Romo/Rume è un termine etrusco che si collega a ruma - pronunciata roma - che significa mammella animale e richiama il tema della lupa.
Comunque Remo è il nome originario e Romolo il diminutivo, per distinguere la gemellarità.
Questo ci conduce nel tema della contrapposizione duale di equilibrio… andando da vita/morte, concordia/discordia (insieme i gemelli vendicano Numitore, l’uno contro l’altro per la fondazione) alle coppie della Bibbia, ai Lari, ai Penati, ai consoli.
(testo già pubblicato qui)
Ne hanno parlato tutti, devo farlo anche io. Ma a modo mio, cioè dando informazioni precise con brio e ironia.
Benvenuti nell'immancabile discussione sul cranio di Cesare!
Come saprete, di recente è stata resa nota una ricostruzione di Cesare realizzata da alcuni studiosi olandesi (dopo un giro di erba bella forte, suppongo), che ha scatenato più di qualche reazione. Nella raffigurazione, il dittatore è quasi deforme, più simile a un ET con i lineamenti appiccicati nel mezzo della faccia, che a Cesare. Per giustificare la rappresentazione, dichiarano di essersi appoggiati alla numismatica e al fatto che Cesare doveva essere nato con parto difficile. Io contesto entrambe le affermazioni.
Andiamo con ordine, perché le cose da dire sono tante e io voglio farlo con precisione e ironia.
Il nome Cesare può derivare da tre possibili episodi o tratti distintivi.
1 - da una folta chioma di qualche antenato e non certo di Cesare. Peraltro questa etimologia fu sfruttata nella traduzione di “Io, Claudio” dove “i Cesari” sono definiti “i Pelosi”. Che orticaria, signori miei…
2- dall’elefante, probabilmente affrontato da uno degli antenati di Caio Giulio “nostro” durante le guerre puniche
3- dalla nascita via cesareo.
All’epoca il cesareo uccideva la donna, salvando se possibile il bambino. Aurelia, la madre di Cesare, viene meno quando il figlio maschio ha 46 anni e si trova nel pieno della campagna gallica. Quindi, no, Cesare non è nato via cesareo. Se aveva una zucca particolarmente voluminosa, mamma Aurelia avrà passato qualche ora non proprio memorabile, ma alla fine l’ha partorito come natura comanda e l’ha anche cresciuto bene, capoccione de mamma sua. Dopo nove mesi a cercare di uscire, ha passato una vita a cercare di entrare (citazione aulica da "Senti chi parla"... Cesare, stacce.)
Se devo scegliere una teoria, la mia preferita è la numero uno, perché la storia ha la sua ironia: Caio Giulio di capelli difettava e la cosa lo faceva soffrire. Non poteva sapere che la calvizie è causata dal testosterone, altrimenti, siamo sicuri, se ne sarebbe bullato in maniera imbarazzante.
Svetonio e Plutarco definiscono Cesare come armonioso e ben fatto, più slanciato della media (dell’epoca, attenzione!), con capelli scuri, occhi scuri, pelle chiara.
Io seguo la loro testimonianza.
E se devo applicare queste texture, nella mia mente lo faccio su un viso che è a metà strada tra il busto detto “di Tuscolo” e quello detto “verde o di Berlino”.
Il primo è sicuramente coevo a Cesare, realistico, ma abbastanza rozzo.
Il secondo è di fattura elegantissima, egiziana, forse coevo, più che idealizzato direi che è lievemente trasfigurato da alcune simbologie legate all’ambiente in cui viene realizzato: infatti sono comunque presenti tratti distintivi marcati (naso, zigomi, piega della bocca), comuni al busto di Tuscolo e, quindi, verosimili.
Ma ora mi spingo oltre, è una mia idea che si basa sulla logica narrativa, quindi prendetela con le pinze.
Applicate i lineamenti del “Cesare verde” sulla mandibola del “Cesare di Tuscolo”. Ci potrebbe stare, no?
Perché lo dico?
Esiste un bronzetto molto interessante, ritrovato a Creta, che rappresenta un ragazzo. Un ragazzo praticamente identico a Cesare, ma con una mandibola più ampia rispetto a quella dei busti di Cesare di età imperiale. Un ragazzo molto somigliante al Cesare verde, ma non del tutto… La nave che portava questo bronzetto veniva da Alessandria d’Egitto e, probabilmente, il fanciullo rappresentato è Cesarione. Ossia “piccolo Cesare”, in quanto pare che il figlio di Cleopatra fosse "uno stampo e una figura" con il padre.
Il gioco delle somiglianze, nella statuaria romana, è divertentissimo e dà tante soddisfazioni.
Mi piace poi insistere sul fototipo, diciamo così, di Cesare, perché oggi si tende spesso ad attribuirgli un aspetto particolarmente moderno e anglosassone. La combinazione tra il successo della serie “Spartacus” - mah, ci ho provato ma non fa per me - e la serie di romanzi “Masters of Rome” della celeberrima e bravissima Collen McCoullogh ha creato un’immagine di Cesare alto, biondo, aitante e con gli occhi azzurri. Io preferisco credere a Svetonio, che aveva accesso agli archivi imperiali ed era pettegolo come le signore del pianerottolo sotto al mio. Ma nella narrativa, nella fiction, la licenza poetica ci può stare. L’importante è che il fruitore si ricordi che si tratta di invenzione.
Raccontare una "fabula" in maniera fantasiosa, seminando qui è là dati storici di prima mano, è favoloso, è un mezzo divulgativo potentissimo. Però è importante ricordare che quanto di più vicino si possa trovare al vero è nei saggi, nei testi d’epoca, nelle testimonianze archeologiche. La narrativa deve ingolosire con rigore ed emozionare con passione, poi sta al lettore curioso approfondire.
Dopo questa dissertazione, sono certa che Cesare borbotterà: "Sti barbari! Duemila anni fa si discuteva di ben altre parti del mio corpo!"
Ma queste sono cose che lasciamo rigorosamente a mamma Aurelia.